Santa Giulia, mistero a Torre a Cenaia

Sulla facciata della Cappella di Sant’Andrea a Torre a Cenaia, si conserva una misteriosa lapide intitolata a Santa Giulia. Che cosa ha a che fare la grande Tenuta cenaiese con la giovane martire? Perché, proprio qui, si è voluta lasciare una traccia della storia della Santa?

 

La lapide di Santa Giulia a Torre a Cenaia

La Cappella dedicata a Sant’Andrea, oggi un tutt’uno con la Casa Turrita di Torre a Cenaia, è attestata per la prima volta in un atto notarile del 1068, dove si annotavano alcune donazioni alla piccola pieve cenaiese, che all’epoca risultava annessa a quelle di Miliano e Leccia sotto la cura della Chiesa di San Michele di Crespina. Della veste originaria non sopravvive più niente, l’attuale impostazione è dovuta ai Marchesi Bartolini Salimbeni, proprietari della Tenuta dal XVI al XIX secolo: evidenti tracce della loro “mano” sono gli elementi barocchi (il timpano tagliato dal fregio IHS sul portale all’esterno, la tela alle spalle dell’altare all’interno) e le insegne ai lati dell’altare, che fanno il paio con il leone rampante sull’ingresso della Casa Turrita.

Sulla sua facciata della cappella, tutt’oggi si conserva una lapide settecentesca che fa riferimento, tra gli altri fatti, a Santa Giulia e a un miracolo del 762 d.C.:

D.O.M. Vetustissima Confraternitas ab antiqui Liburni portus colonis divinissimi corporis D.N. J Christi gloriae et attuali obsequio aedificata, ex miraculo hic D. Juliam de anno 762 in Matrem et Patronam elegit, ejusdem venerabile nomen sibi in titulo adjicendo, quapropter idem SS. Sacramenti et Juliae Confratres, qui de anno 1603 eorum sacro insituto continuato ad alium novum Oratorium migrarunt, hoc antiquitatis eorum insigne monumentum una cum dono contigua instauraverunt, anno ab incarnatione D. N. 1721. Antonio Pons gubernatore, Francisco Damiani et Josepho Maria Leone consiliariis praedictae Confraternitatis representantibus

 

A Dio Ottimo Massimo

Antichissima confraternita, costruita in origine presso il porto della colonia di Livorno in osservanza al santissimo corpo di Nostro Signore Gesù Cristo, qui dedicata alla Madre e Patrona Santa Giulia per il miracolo avvenuto nell’anno 762, nominandosi con lo stesso nome venerabile, e i relativi Confratelli del Santissimo Sacramento e di Santa Giulia, i quali nell’anno 1603 dal loro sacro Istituto si trasferirono al nuovo Oratorio, che rinnovarono come segno e testimonianza della propria ininterrotta tradizione gra-zie alle offerte, nell’anno 1721 dall’incarnazione di Nostro Signore.

Antonio Pons. Governatore, Francesco Damiani e Giuseppe Maria Leone consiglieri rappresentanti della suddetta Confraternita

 

Si ritiene che questa lapide sia l’originale – di cui oggi si conserva una copia nella sacrestia di Santa Giulia a Livorno – posta nel 1721 sulla porta dell’Oratorio di Santa Giulina, dopo che fu restaurato nell’antica sede presso il porto in via Sant’Antonio.

Le origini della confraternita di cui ci narra l’iscrizione sono da ricercare nella cala di Liburnia – il nucleo originario di Livorno – dove sorse come una fraternita devozionale di laici, riuniti con lo scopo di curare le pratiche inerenti al culto eucaristico e giuliano. Le prime testimonianze del culto di Santa Giulia presso il “Porto Pisano” risalgono al IX secolo, quando doveva sorgere una piccola pieve dedicata alla Santa, come attestato dalla lapide ancora oggi posta in via Santa Barbara. Nel 1017 se ne trova traccia in alcuni documenti, in occasione del conferimento dell’onore battesimale.

Fino al 1361, come risulta dalle fonti, non è ancora stata assimilata alla pieve di Santa Maria, la più antica pieve di Livorno, già sede della Confraternita del Santissimo Sacramento, lì attestata intorno al 1270, non appena la pieve fu riedificata dopo le distruzioni di Carlo d’Angiò: questo sodalizio intitolato al “Corpo del Signore” mostrava già una particolare devozione per Santa Giulia, che ben presto fu eletta patrona e protettrice dell’allora città di Liburnia.

Anche per questo, la fusione delle due pievi nel 1410-1411 in quella di Santa Maria e Giulia presso la Fortezza Vecchia è l’esito naturale delle tendenze devozionali dei cittadini: è in questo momento che nasce la “Confraternita del Santissimo Sacramento e di Santa Giulia”, alla quale si riferisce la nostra lapide.

Un documento la attesta in questa chiesa nel 1428, in occasione di alcune pratiche religiose che eseguiva sull’altare dei Cantelmi, al fine di far cessare la pestilenza che devastava la città.

Dopo che nel 1521 fu ordinato l’abbattimento della chiesa di Santa Maria e Giulia per far spazio al nuovo fossato che doveva cingere la fortezza medicea, la Confraternita acquistò un piccolo magazzino nei pressi del porto, in via Sant’Antonio, che fu ridotto a oratorio e, proprio per le sue ristrette dimensioni, chiamato “Oratorio di Santa Giulina”.

Poiché i cittadini erano particolarmente devoti alla Santa, il Granduca Ferdinando I concesse alla Confraternita un terreno sulla Piazza d’Arme, sul lato opposto alla Misericordia, in modo che potessero costruirvi una chiesa più grande: la prima pietra fu posata il 22 maggio 1602 dal pievano di Livorno Galeotto Balbiani. L’anno successivo fu terminata e la Confraternita ne prese subito possesso, pur continuando a officiare anche nella sede precedente. Pietro Leopoldo soppresse entrambi gli oratori nel 1786, che vennero prontamente riaperti nella sollevazione del 1790. Dopo la soppressione, si ricostituì subito anche la Congregazione del Santissimo Sacramento, e appena dopo quella di Santa Giulia.

Vive ancora oggi con il titolo di “Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di Santa Giulia” ed è la più antica associazione di laici livornesi: fin dalle origini – fissate convenzionalmente nell’anno 1300, in assenza di documentazione certa – questo sodalizio rappresentò il “prim’ordine” della città ed ebbe un peso importante nonché suprema autorità nel governo del Comune. Lo scopo della Confraternita è tutt’oggi quello di rendere liturgico onore alla Santissima Eucarestia e pubblica venerazione a Santa Giulia Patrona di Livorno, la cui festa si celebra il 22 maggio di ogni anno.

La lapide di Torre a Cenaia parla di un miraculus avvenuto nel 762 d.C., di quale miracolo si tratta?

Difficile dirlo.

Il più celebre episodio da attribuire alla Santa è “il miracolo del quadro”.

Nel XVI secolo alcuni devoti di Corsica commissionario a Pisa una tavola raffigurante Santa Giulia, da destinare a una chiesa dell’isola. Quando arrivò il momento di imbarcare il dipinto, nonostante il mare fosse tranquillo e il meteo favorevole, il bastimento in partenza dal porto di Livorno non volle sapere di lasciare la banchina: venne interpretato come un fatto soprannaturale, miracoloso, e il pievano dispose di collocare l’icona su un altare della Pieve di Santa Maria, finché non fosse edificata una chiesa dedicata alla Santa. Fu così trasferita dapprima nell’Oratorio di Santa Giulina, poi nell’attuale Chiesa di Santa Giulia non appena fu ultimata, nel 1603.

Un altro miracolo è attestato nel 1609, quando pare che dell’acqua miracolosa proveniente dalla Corsica riportò in salute la figlia del Provisore, gravemente ammalata.

La nostra lapide menziona però l’anno 762, che sappiamo essere il momento in cui Desiderio, Re dei Longobardi, fece traslare le spoglie di Giulia dal monastero dell’isola di Gorgona, dove allora si trovavano i resti della Martire, a Brescia. Non si ha notizia di un miracolo preciso da collocare in quel periodo, bensì di un crescendo di miracoli non meglio identificati da imputare al corpo della Santa, che richiamarono l’attenzione del monarca germanico al punto da fargli decidere di trasferire Giulia sul continente.

Non di miracoli narra la lapide ma di miraculo, al singolare. Dovremmo quindi pensare a un episodio specifico da collocare in territorio pisano-labronico?

Probabile, soprattutto perché Torre a Cenaia si trova sulla strada che allora collegava il Portus Pisanus ai domini longobardi dell’entroterra, verso la piana lucchese e poi la pianura padana. Il convoglio con le spoglie della Santa avrà percorso la direttrice che dalla costa conduceva al castello di Ponte di Sacco, lì avrà deviato verso nord e, attraverso l’alveo di Bientina, avrà probabilmente raggiunto Lucca, l’allora capitale del Ducato longobardo. Da lì si sarà diretto ai valici appennini, evitando così la via costiera, a quell’epoca infestata dalle paludi, dalla malaria e dai briganti.

Non è quindi inverosimile ipotizzare il verificarsi di uno o più miracoli lungo il percorso della Santa verso Brescia, a partire dalle terre cenaiesi, dove, molti secoli dopo e senza alcuna apparente motivazione, troviamo una lapide a lei dedicata.

 

Appunto. Perché la lapide originale della più importante confraternita di Livorno si trova sulla facciata della cappella di Sant’Andrea di Torre a Cenaia?

Questo resterà probabilmente un mistero. Ma proviamo a capirci meglio.

Giuseppe Vivoli, un noto storico locale dell’Ottocento, ipotizzò che la cappella di Sant’Andrea a Torre a Cenaia sia stata restaurata con il ricavato della vendita delle reliquie dell’ex oratorio di Santa Giulina, probabilmente dopo la soppressione del 1786.

In tal caso la questione sarebbe soltanto posposta: per quale motivo la Tenuta si sarebbe arrogata tale diritto? I Marchesi Bartolini Salimbeni, che allora ne detenevano la proprietà, avevano interessi a Livorno tali per cui decisero di rinnovare la cappella della propria tenuta di campagna acquistando le vestigia dismesse dal piccolo oratorio intitolato a Santa Giulia?

Questione da approfondire indagando nei legami tra la ricca e potente famiglia fiorentina e il territorio labronico a cavallo tra Settecento e Ottocento, ovvero poco prima della cessione della Tenuta ai Conti De Bearn-Valery di Corsica e ai Pitti Ferrandi.

Se così fosse, si potrebbe ipotizzare che pure il dipinto seicentesco a tema devozionale, tutt’oggi conservato alle spalle dell’altare, sia stato acquistato dall’oratorio dismesso insieme alla lapide e a chissà cos’altro e, trovandosi l’oratorio in via Sant’Antonio, potrebbe non essere errata la lettura che vede nel quadro la raffigurazione di un episodio della vita del celebre Santo: l’incontro con Gesù bambino.

 

Il dipinto della Cappella di Sant’Andrea a Torre a Cenaia

Nel Liber Miraculorum si narra che, poco prima di morire, Antonio si ritirò in preghiera dai francescani a Camposampiero, non lontano da Padova, nei pressi del castello del signore del luogo, il conte Tiso.

Il Santo trascorreva le giornate in meditazione sui rami di un maestoso albero di noce, dove il Conte gli aveva fatto costruire una sorta di celletta di legno su suo desiderio; ogni giorno, Antonio faceva ritorno all’eremo francescano soltanto a buio. Una sera, Tiso va a fargli visita e, dalla porta socchiusa della cella, vede un intenso bagliore. Temendo un incendio, spalanca la porta e resta stupefatto dalla visione: il Santo stringe fra le braccia il piccolo Gesù.

L’episodio, narrato dal Liber, è ben presto entrato a far parte dell’iconografia del Santo, tanto da essere stato rappresentato dai più celebri pittori e aver riscosso una longeva fortuna artistica.

Gli elementi dell’opera che fanno credere che si tratti di questo episodio sono vari:

  • Il castello sullo sfondo sembra essere, con una discreta nota di veridicità, la raffigurazione del torrione trecentesco del castello di Camposampiero, reso in piena atmosfera barocca. Lo si nota anche nel gruppo scultoreo del Santuario del Noce a Camposampiero, nel quale ritroviamo, oltre ai protagonisti, anche il castello sullo sfondo, in perfetta analogia con la nostra tela.
  • Le vesti francescane, qui rappresentate con uno splendido saio dal tono dell’ocra, sono il tipico abbigliamento con cui è sempre raffigurato Sant’Antonio.
  • Gli attributi: il pane (carità) e il libro (dottrina) sono i simboli antoniniani per eccellenza, che caratterizzano la sua figura nell’arte fino al Barocco, quando comincia a diffondersi maggiormente proprio la raffigurazione col Bambino; celebri esempi sono le rappresentazioni di El Greco (1576-1579), Francisco de Zurbaràn (1627-30), Claudio Coello (1663), Bortolomé Esteban Murillo (1656), Alonso Cano (1657-1659). Nella nostra tela notiamo un simbolo in più, una pera: rappresenta l’amore di Cristo per l’umanità e compare spesso in associazione alla Madonna e al Bambino – c’è chi dice che sia un rimando sinestetico alla dolcezza della loro virtù – ed è quindi perfettamente coerente alla scena qui narrata.
  • La Vergine: la variante dell’episodio in cui tra i protagonisti spicca la Madonna, nelle vesti di colei che presenta e porge il Bambino al Santo, è parimenti celebre e diffusa. Un esempio assai noto è la Visione di Sant’Antonio da Padova di Antony van Dyck del 1828-32. C’è da credere che l’artista della tela cenaiese si sia ispirato proprio a questo filone iconografico: si noti la medesima posizione dei personaggi ma soprattutto del libro aperto, caduto a terra. L’estasi mistica del Santo è così forte da rendere inermi persino i suoi attributi più identitari, quali sono la scienza, la dottrina, la predicazione e l’insegnamento simboleggiati dal libro.

    La Visione di Sant’Antonio da Padova di Antony van Dyck

Per concludere, possiamo quindi aggiungere un ulteriore elemento di probabilità alla lettura della tela ceniaese. Oltre a trattarsi di un’opera barocca, ascrivibile cioè alla seconda metà XVII secolo come si evince dallo stile, e ad essere stata collocata in situ dai Marchesi Bartolini Salimbeni, ai quali è da imputare il coevo restyling della cappella, possiamo ritenere che rappresenti l’episodio di Sant’Antonio e il Bambino come narrato nel Liber Miraculorum. In più, non è da escludere che sia arrivata a Torre a Cenaia da Livorno, insieme alla lapide che ne orna la facciata, entrambe acquistate dal dismesso Oratorio di Santa Giulina, dopo la soppressione del 1786 voluta dal Granduca di Toscana Leopoldo II.

Il motivo di questo è tutto da scoprire: appare indubbio il forte legame tra Torre a Cenaia, Livorno e Santa Giulia, ma ne restano oscure le più profonde ragioni. Perché un’“anonima” tenuta del pisano si è arrogata il diritto di far proprie le vestigia della più antica e prestigiosa confraternita labronica, la quale si è dovuta “accontentare” di una copia della stessa lapide?

La ricerca continua…

Author: Gabriele Panigada

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